Elenco dei prodotti per la marca Lionsteel
lionsteel, una delle migliori aziende di coltelleria Italiana mai esistita, tecnolgia e tecnica sono sempre all'avanguardia, vincitori di svariati premi e una storia tutta da scoprire, le loro lame non sono solo di eccellente qualità ma sono assemblate alla perfezione, nulla è lasciato al caso, ogni vite, perno e qualsiasi dettaglio inserito è stato studiato, progettati e prodotto da loro per un determinato scopo
Altrolionsteel, una delle migliori aziende di coltelleria Italiana mai esistita, tecnolgia e tecnica sono sempre all'avanguardia, vincitori di svariati premi e una storia tutta da scoprire, le loro lame non sono solo di eccellente qualità ma sono assemblate alla perfezione, nulla è lasciato al caso, ogni vite, perno e qualsiasi dettaglio inserito è stato studiato, progettati e prodotto da loro per un determinato scopo
Che emozione sapere una propria creatura “miglior coltello dell'anno” al Blade Show di Atlanta. È il sesto premio, dal 2012. Fa un certo effetto essere partiti dalla piccola Maniago, dalla nostra pedemontana scontrosa, e ora essere qui, trionfatori, nella più grande fiera della coltelleria del mondo, nella città della Coca Cola, con l'aeroporto che detiene il record planetario di passeggeri. Il piccolo David friulano continua a battere i Golia dell'industria americana. Questo è il terzo “Overall Knife of the Year”, dopo quello del 2014 conquistato da TiDust e quello del 2015 firmato T.R.E. Titanio. Tripletta, cui si aggiunge un traguardo ancora più prestigioso: il “Manufacturing Quality Award” che nel 2014 ha consacrato LionSteel come migliore azienda, scalzando dal podio più alto, dopo un tempo immemorabile, i soliti yankee. Per trovare una metafora calcistica, è come vincere una finale del Campionato Mondiale di Calcio a Rio de Janeiro, contro i carioca, con una squadra di dilettanti. Peccato che non ci sia nulla di dilettantesco nelle prestazioni industriali di LionSteel, tranne un ingrediente che rimane lo stesso da quasi sessant'anni, da quando Gino Pauletta ha aperto il suo conto esistenziale con i coltelli. Una spezia sempre più rara e preziosa: la passione.
Oggi, ad Atlanta, a raccogliere gli allori c'è il figlio Gianni. Sì, perché Gino è uno di quegli artigiani cocciuti che non molla l'officina, ma ne lascia volentieri le redini. Sa che lo stesso sogno incandescente può vestirsi di nuove tecnologie e di nuovi materiali, prendere strade impreviste e a percorrerle devono essere i giovani, meno intossicati dalle nostalgie e con più energia per mettersi in gioco. Allo scoccare del nuovo secolo, anzi del nuovo millennio, Gino ha così passato il testimone dell'impresa ai suoi figli: Daniele, Gianni, Massimo.
La fabbrica, però, non l'ha mai lasciata, figuriamoci. Lui è sempre lì, con il suo tocco da maestro, con la sua voglia di creare giocattoli, che spesso diventano gioielli e, qualche volta, ispirano prodotti. Gino è il mago che pensa con le mani e, quando pensa, gli ridono gli occhi chiari, e sembra quasi che l'oggetto riflesso sull'iride preceda di qualche istante la creazione magica. Ogni gesto ha il peso giusto, la giusta direzione. Ha cominciato da ragazzo, Gino, il 1° gennaio 1957, alla FARM, Fabbrica Articoli Reclame Maniago. Per emanciparsi economicamente e sfamare la sua insaziabile passione, non ha esitato un attimo ad aggiungere alle ore timbriche quelle dei dopocena, dei sabati e delle domeniche, per conto terzi. Andava così in quei tempi: anche quindici ore al giorno, ché la paga da operaio non bastava, specie se volevi mettere su famiglia.
Poi, nel 1969, è venuto il momento di staccarsi, come il LEM, che quello stesso anno si sarebbe sganciato dall'Apollo 11, per raggiungere la Luna. Gino non poteva sapere dove sarebbe stata la sua Luna, ma aveva voluto ugualmente diventare imprenditore artigiano e proseguire in solitudine lungo la sua strada, con l'entusiasmo di chi sente di averla dentro di sé, l'America. Dentro di lui rugggiva quel leone che i suoi avi scalpellini avevano scolpito con la pietra del Monte Jouf e sul cortile di casa occhieggiava i bambini con una cattiveria da mettere i brividi. Quella bestia indomita gli sarebbe rimasta impressa per sempre, sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica, per la sua forza primitiva e, ancora di più, per quello che significava: il suo essere forma immaginata e cavata dalla materia prima. Quella forma che solo lui vede dentro il metallo grezzo, quel filo che accarezza con lo sguardo, quella curva impercettibile che a lui solo sembra valle e montagna e bisogna limare e limare, per raggiungere la pendenza perfetta, perché le lame affiancate del coltellino multiuso si sfiorino al decimo di millimetro, senza toccarsi, per cadere nella loro sede con quel “clic”, che fa la gioia degli orecchi più fini. Che musica!
Che importa, poi, se non sono sempre coltelli. Importa fare, domare il leone, plasmare il metallo: nel 1969, a inaugurare l'attività dell'azienda, un ordine di un numero di apriscatole per la ditta Farfalli, che presto diventano 3000, 3500... Seguono i temperini per il Coricama , che prendono la strada per Milano, per Roma, per la Germania.
Non è ancora tempo di America: al momento anche l'Italia e l'Europa possono bastare.
È una giornata tiepida d'inverno, del 1978. In Friuli il terremoto ha lasciato ancora molte ferite aperte, ma non bisogna lamentarsi: l'economia è ripartita a pieni giri, le commesse non mancano, ci si può permettere qualche giornata di svago.
Gino, con la moglie Cesarina, è in visita parenti a Milano. Passeggiano in Galleria, sotto quelle volte di vetro innervate di metallo. Bellissime. Lui sì che può capirlo. L'occhio cade – chissà perché? – sulla vetrina di un negozio di regalistica. Scompare tutto, d'intorno. Come un miraggio nel deserto, brilla solo quel coltello a serramanico, made in USA. È uno spettacolomai visto: bisogna entrare, acquistare, costi quel che costi. Sessantamila lire. Una bella cifra. Anzi, un bell'investimento. La meraviglia, questa volta, è tutta concentrata nel manico, costruito con due materiali sposati a intarsio. Non c'è tempo da perdere. Bisogna replicare quel capolavoro, con un tocco in più d'innovazione, di made in Maniago. Bisogna mettere insieme Giappone e Italia.
Gino intuisce due materiali perfetti per fare centro: ottone e legno d'ulivo. È il primo a pensare a questa combinazione elegante. Anche l'ulivo, da solo, sarebbe già una grande novità.
È giunto il momento d'industrializzare l'idea e, come direbbero oggi, di mettere insieme i “compagni di cordata”. Per le lavorazioni più critiche, trova a Malnisio la persona che fa al suo caso: si può finalmente partire con i primi prototipi. Si può finalmente iniziare la produzione.
Nasce l'articolo 110: la lode gliela conferirà il mercato, con un boom di vendite tra 1979 e '80.
In questa parabola c'è tutta l'eccellenza di Gino: il colpo d'occhio, la capacità d'interiorizzare un'idea innovativa e renderla ancora più nuova, l'entusiasmo che moltiplica le forze e unisce le persone, la voglia di liberarsi dal giogo del lavoro “conto terzi”, per creare qualcosa di proprio, che cammini con orgoglio a testa alta, che reclami la propria esclusività. “Quell'articolo 110 riuscivamo a venderlo a 8.500 lire, prezzo di fabbrica. Non maschio, per quei tempi. Ogni pezzo ci dava il suo bell'utile. E con i ricavi cresceva l'azienda. Ecco cos'è un imprenditore. Uno che sa immaginare il valore di un oggetto che non esiste, di un prodotto che sarà, e poi si ostina a crearlo, a dargli vita con le proprie mani. Gino era così, fin da ragazzo, quando lavorava alla FARM, fin da quel giorno quando trovò una pepita sul Colvera, il torrente che da più di mille anni alimenta i mulini e le mole di Maniago, quell'acqua viva che trasforma il metallo. La pepita era uno scarto di coltelleria. In quel dono grezzo, in quel rifiuto della civiltà industriale, Gino aveva visto la forma del suo primo coltello temperino, l'aveva trattenuta in sé perché non gli scappasse via e, con pochi mezzi e tanta buona volontà, l'aveva liberata dal suo destino informato.
Quando ripensa a quella sua prima impresa giovanile, si sente ancora più vicino ai propri figli, a ciascuno dei quali ha trasmesso qualche pezzo della sua passione. Gianni gira il mondo a inseguire (e portare) novità e oggi è ad Atlanta. Daniele e Massimo lo affiancano in officina e continuano ad ascoltare i suoi consigli, ma per fortuna non sono sempre d'accordo con lui. Conta, tuttavia, che la passione sia colta dal suo crogiolo e ora fluisca nelle loro vite, nelle loro vene, per sorprenderlo ogni giorno con nuove creazioni, che lui non sarebbe nemmeno riuscito a immaginare. Quanti materiali. Quanti processi sono cambiati. Come si è velocizzata la produzione delle lame, con la progettazione 3D, il taglio ad acqua, il taglio laser. Eppure, a voler guardare l'essenza delle cose, non c'è grande differenza tra ieri e oggi. La vera fucina è dentro la nostra anima, il mantice è il battito del nostro cuore. L'alta tecnologia, quella sua e quella dei suoi figli, è prima di tutto alta immaginazione, viaggio della mente dentro la forma, pregustando le asperità e le resistenze di quella materia che bisogna conoscere e amare, per lealmente combatterla. Per vincere infine il leone.
Quando guarda i prodotti dell'ultimo decennio, a Gino pare impossibile che i suoi ragazzi abbiano potuto realizzare un manico monolitico in titanio, fresato da un pezzo unico. O ancora quello leggero, traforato di TiDust, ottenuto con la tecnica della fusione selettiva dalla polvere di titanio: il primo coltello al mondo prodotto con tecnologie aerospaziali!
Il LEM che si è staccato dall'Apollo 11, quando ha aperto bottega, è ancora in viaggio. Naviga oltre la Luna, oltre Giove, verso l'infinito: con l'equipaggio dei suoi figli, finché durerà la voglia di esplorare.
Anche se da buon maniaghese fa fatica ad ammetterlo, Gino è orgoglioso dei suoi figli.
È orgoglioso che in questo momento Gianni sia là, in America, a ricevere il primo premio.
Gino non è mai stato in America.
A lui è venuta incontro l'America. Quel giorno, a Milano.
”Maniago, storie fatte a mano” - Foto di Ruggero Lorenzi - Racconti di Romeo Pignat